Sono seduto sul terrazzo che affaccia sulla valle che mi ha visto crescere:
Qui ho dato il peggio e il meglio di me.
È Ottobre e c’è un sole che dà del tu all’universo intero.
Potessi scrivere con gli occhi chiusi. Lo farei.
Potessi dire senza parlare. Farei anche quello.
Potessi amare senza sentire niente. Farei anche quello.
Potessi pensare senza sapere di farlo. Lo farei.
In questi giorni tutto mi attraversa.
Tutto ciò che mi attraversa mi costa fatica
Tutto si prende un pezzo di questo corpo
Che sta diventanto sempre più una reliquia.
Se avessi una misura. Se avessi davvero un limite. Comincerei a preoccuparmi.
A volte ho la sensazione di consumarmi. Di poter finire da un momento all’altro.
La soglia della mia percezione si è notevolmente abbassata da quando ho deciso di parlare senza nascondermi.
Prima è passato un cane bianco lungo la strada. Da sopra gli ho fatto un verso come per chiamarlo. Lui ha alzato le orecchie prima, poi il capo. Ci siamo guardati. Gli ho sorriso ed ha accennato a scodinzolare prima di andare via. Questo fatto per niente eccezionale mi ha tenuto in disparte per qualche tempo. Non parlo. Scrivo.
Adesso ho davanti agli occhi il balconi e giardini dove un tempo ho sepolto dei baci e ho lasciato che crescessero edere e rovi
in fondo allo sguardo le cime del Pollino sono un miraggio verde e fresco.
C’è un accenno di perfezione che non comprendo intimamente. Lo intuisco come una religione. Un metafede di chi non ha fede in nulla.
Le auto sulla statale si sorpassano anonimamente. È quasi ora di pranzo.
Penso alle cose lontane
alle tante cose
Sempre lontane.
Nell’aria il profumo del sugo
il rumore dei piatti
Il grido dei fiori.
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