BEATI I FRUTTARIANI(Da Stellato a Stallato)


Riluce sui monti
Il piatto che piange e
Come monito strapazza la vista
A dire: fottiti gènio!
Mattino andato con brico
A montare scaffali
Che richiuderanno libri più acuti
Di questo scritto. Almeno si spera…
Ecco la sera. Sùbito pronta
A rinverdire la dose.
Riduce nel petto il ricordo di donna
(Il sentimento è sempre un ricordo, perquanto futuro…):
Diventa topazio. Pepita smussata.
:Andare.camminare.lavorare!
Il presente perfetto di estrazione comune
Si aggira per sobborghi affollati
In cerca degli adepti dell’amor proprio.
Voglio fare l’albero. Tutt’al più di banane.
Fu già di mimose alla Garbatella. Cito Cavallo.
E farmi giallo frutto profumo carnoso
… e marcire. Per dispetto. Perterra come un dislocato.
Direte: ha sprecato. Che grande peccato.
L’ho visto brillare una volta sul palco di un venerdì sera e adesso è marcito come se dal dieci d’agosto stellato. Adesso HA stallato!
Beati i fruttariani.

Cecità e altri legumi

quello che non tocca la poesia

è benedetto. è ciò che non è detto.

se rivelato. il nome. spicciola il mistero

tutto è terra terra. per esempio: la guerra

ciò che non ha nome non suscita stupore

scava pietra pietra. solco scaccia pièta.

raspa come un fiore. punge con tremore:

labbra. cocciopesto. mancanza e maldicenza

noi cantiamo l’ombra e non sappiamo il sole.

Scusate il presagio

Finestra. Interno bagno
Quadretto d’autunno a primavera
Tutti i sentimenti picchiano
Sugli occhi e sulle lune:
L’appartenenza alle cose –
il distacco dalle cose –
L’orologio delle nove e quindici
Si risolve in un frontespizio
Con un crepaccio di organi.
Tutti gli amori chiedono dazio
Che paghi con piccoli sassi di fiume.
La vita è complessa come un cetriolo:
Perfino l’ortica rigogliosa di maggio
Cotta e mangiata addolcisce il palato
Di innocenti astringenze.
L’Orologio adesso batte le nove e trenta
E tu sei un’altra persona
Ma nessuno mai davvero
riconosce nessuno: te lo dici da tempo
(Nemmeno se stesso).
Adesso l’acqua. Appresso la polvere
E sarà ancora il trempo di:
L’ appartenenza alle cose.
Il distacco dalle cose.

Presagio – Dimenticammo le cose.

La Peste – Storia di zoccole.

Eravamo seduti fuori
ai tavoli al bar
Quando la gente ha cominciato a urlare
E a fuggire in ogni direzione.
La juve aveva appena pareggiato
“Qualcuno avrà avuto un malore”
Date ultime le prestazioni sportive…
Ho pensato. O una caduta.
Un micro attentato dell’ I.R.A.
(Irascibil Republican Army)
Una capata sul naso di qualcuno:
Niente di tutto questo:
È un topohh! Sento urlare.
Un topoh!
Mi avvicino per vedere la bestia.
La fiera: tre centimetri di roditore fulvo
Nascosto sulle assi di ferro della panca pieghevole.
Due occhioni neri spaventati come
Mio nonno in trincela durante la
Campagna d’Africa. Così me li immagino quei tempi.
Tra un “che schifo” e un “ammazzalo”
Mi avvicino con cautela alla belva.
Cerco di tendergli una mano. Faccio l’amico:
“Ché di topa…” Direbbero gli amici livornesi…
(Omissis…)
Cerco di rassicurarlo avvicinandomi lentamente
Pronto a concordare con la folla un cordone umanitario…
Ad un tratto accade una di quelle cose che accadono solitamente nella mia vita.
(Suppongo anche nelle vostre, ma questo è un mio scritto, quindi…)
Il colpo di scena, la poesia, l’imponderabile.
La belva salta sul mio pantalone, gamba destra altezza polpaccio. Poi si arrampica fino alla tasca. Gli sbarro il cammino col palmo. Retromarcia. Giù rapido fino al ginocchio. Intanto cammino, tra lo schifo generale, con la gamba tesa a mo’ di protesi, fino alla strada;
come Marlow sul fiume Congo:
un po’ uomo, un po’ battello, un po’ Nastro Azzurro ( Si sente l’odore dell’adrenalina. Del 1789. Di quando rotolavano teste giù dalle piazze.).
Quattro o cinque lunghezze, al passo dell’ oca, soldatino di piombo. Immaginate le urla.
Un topolino fulvo e selvatico di tre centimetri che si fa dare un passaggio in piena notte da uno sconosciuto! Arrivati alla fine del marciapiede, dopo un gesto di intesa immaginario, decide di correre fino alla scarpa e fuggire via verso la libertà.
La peste nera, ho letto da qualche parte, la peste bubbonica, non è mai stata debellata. Ancora oggi, in Africa e soprattutto nelle sterminate praterie del Sud America, qualcuno ancora ci lascia le penne. Come saprete, proprio a causa delle pulci che abitano le accoglienti pellicce dei simpatici roditori.
Ma sì, chi se ne frega. Ieri sera ho capito il vero prezzo della poesia. la Peste.
Ciao amico topo. Salutami quella grande “zoccola”che ti ha generato, quando torni a casa.
E ricorda che i bar, ad una certa ora, non sono posti per criceti. Fatti furbo. Scegli la vita.

VERRA LA SORTE E AVRÀ I TUOI OCCHI

Verrà la sorte e avrà i tuoi occhi
Arriva benedetta vespertina
Co l’occhi sgrani d’una ragazzina
Dice: Ehi signore, yo soy birichina!
Sorrisi molto nel vederla ruzzolare
Lungo il piano del farnetico parlare
E dopo un’ora densa di ascoltaggi
Dissi lei col fare dei miraggi:
Hey sortina, spigliata benedetta
Yo soy Miguel del cantico latino
Y Se te tu ti andasse di fare seratina:
Maracaibo, bevuta e scopatina?

EpiCglottodidattica(gargarozzo spaziale)

Giorni in cui il mattino
si srotola Avanti agli occhi
come un tappeto sporco
Chincaglierie del sentire
Starnazzano come strepiti

Le poche lingue che entiendo
Faticano a logicare un pensiero

… E pure è chiaro il grido.
Cristallo il risveglio – È
Tracciato il sentiero – e
Il pensiero è teso:
come IL violino.

Qualsizie, incontri. Pizzic88 sul culo.

Pioggia – Pinzimonio del sonno.
Ieri ho dormito dieci ore.
Non accadeva dal 1789.

:Quel giorno raccontavo che
Il pensiero è un atto naturale e
Descrive solamente cose conosciute
L’arte ( a mio piacere)
vorrebbe esserne l’avanguardia
Ovvero: Dire l’indicibile – fare l’infattibile
Ed altre inutilità che mi vengono in mente
Quando mi sento un poco solo…

Se fossi una filosofia non avrei le gambe.
– Come dici? Che sarei comunque basso?
Poi lo sguardo. Il filo d’erba e l’incaglio.
La mano sul collo. Il pizzico sul culo
La parola che si fa carezza. La fratellanza.
La malizia. Il cammino. il sudore. L’incontro.

Dell’universo non si butta via niente
“Principio di conservazione del fattispecie”
Il tempo è il macellaio della materia!
Ieri ho detto a un vagano che siamo tutti cannibali, ma non credo che mi abbia capito.
Certo che è colpa mia. Poche idee e confuse
Se parliamo di qualsizie.

Gesoo

Cerchi la poesia nelle cose
E Invece è nelle mani. Dice:
Il giorno è carezza sul palmo; e
la frase risuona come una preghiera:
Stanne alla larga. Evita I frotti
Baciami – e – Va’ avanti adagio –
O indietro, sali… Insomma:
spostati Verso il pensiero laterale:
Verso per verso: fa ancora scandalo il di verso.
Questa suona come una stronzata
E per questo ne vai fiero.
Spostati Dove le cose mi assomigliano E
A luppoli di assenze A spalti di sgraviotti
A frenuli di zucchero A ritrmi sempiturgidi
E Quando il sole avrà spellato gli argini
pettinato di verde le pozzanghere
Spremi con le mani, con i piedi,
Le meningi del segno tuo gesoo.

La Cose Importanti


Fare cose importanti:
Ma è importante la cosa? Oppure è il fatto che importa?
Ma a chi importa davvero? E se solo a te stesso?
Dice: ha fatto cose importanti, come guidare un paese
sull’orlo della Bancarotta fino ad aggiustarla, la banca.
Dice: una volta ha suonato avanti a 300 000 persone
senza sbagliare una nota né asfaltare un geranio.
(Ci pensi mai ai gerani asfaltati dalle gelate improvvise
appesi come cristi sui balconi di mezzo mondo? )
Ha fatto cose importanti – (
ed io che penso a quella volta
seduto sulla costa del monte
mentre pensavo a questa poesia
che ancora non esisteva nei fatti
ma nell’ ombra mise radici
che germogliano adesso ché il pensato è maturo.
Certo. Per me era importante – ma a chi importa davvero?
Certo che poi, se ci penso, non così tanto.
E allora che fare? Forse Esportare?
Sono le Cose Esportanti a contare davvero?
Per questo non amo le patriae, né i dazi o le vili frontiere.

La mezza stagione – Fuori dal luogo comune

Alla finestra scrupola il sole
Il ferro si fa vergine al caldo
Sento le castagne dormire
Stipate nei ricci come ricordi
E con loro letargare il passato
Di una stagione ancora tardiva
Frizza l’acqua nelle pozze
Dove presto esploderanno zanzare
Caldo e freddo sui monti
A dividersi il pane
Qui Fioriscono certezze
Vicino alle ortiche
dove la lingua punge
Come cristallo
E l’assenza dei sogni
ha il profumo degli occhi

Horny-too-rinco

È ritornata la voglia di scrivere
Forse un malessere
Forse no.
L’inesprimibile nulla
Mi rintorta i pensieri
Lo scollamento con la base.
Coi pavimenti di marmo
Su cui poggia lo Status Quo
Continua a scavare nel petto
Come una talpa.
Oggi è morto il padre di una vecchia amica
Questi sono i fatti. La tenerezza
Si è sbriciolata sulla soglia di casa tempo fa.
È piovuto. È freddo. È primavera sull’appennino
E le valli sembrano avere la mestizia
Delle madri sconfitte dai ritardi di attenzioni
Dalla fatica per aver compatito troppo.
Sono stato troppo tempo lontano dalla musica
Dai libri e dal buon vino. Troppo tempo rintanato
Come un cinghiale ferito. Un lupo domestico.
Un horny-too-rinco. Ecco che ritorno a parlare di inezie. Di me che manco so se davvero esisto.
È tornata la voglia di scrivere ma non la poesia (ammesso che…).
Mi sto ancora troppo a cuore per annullarmi
In uno qualsiasi dei miei scritti. Che vergogna.
Che inutilità clandestina sono diventato. Penso.
Mentre la bellezza mi lacera i timpani con un pianto di chitarra. La sordità merito per non saper essere davvero un suono valido.
La folata. L’uragano. La foschia che dirada.
La polvere. Qualcosa…

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