Mercoledì.
Ho guidato per un’ora senza sapere dove andare. Mi sono fermato in un parcheggio di un supermercato chiuso, ad ascoltare il mio podcast di storia preferito. Penso: “Oggi il giorno mi pesa addosso come una tonnellata di fumo”.
Poi recito a mezza bocca poesie di Carnevali.
Vedo passare auto e pedoni come se avessero davvero uno scopo nella vita. Due cani si ignorano ai lati opposti del parcheggio. Nel mezzo tutte le urgenze post industriali.
Le insegne qua e là tra i cantieri, cantano il loro grido di avanguardia artifiZiale. Scorticano le persiane i palazzi. Fanno la muta i cementi. Calcinacci. Arrugginiscono le plastiche del secolo scorso e le repliche dei giorni precedenti e gli alibi e le urla dei mammalucchi scavano nel cuore come scavatrici: “A mia madre. A mia madre!” : Sembra farci il verso anche il lampione intermittente in codice Mors tua vita mea.
È tutto vero. è tutto vero. Umanità. Qui a valle, la neve si è sciolta da un pezzo. L’umido viene dal basso. Dai ricordi di una palude che si fa strada, per capillarità, dalle caviglie fino al collo. E questa voce “mezza” d’ acqua, di terra e di fulgore vuole dire quelle cose che non ci è dato dire. In questa distanza irrisolvibile tra volere, potere e dovere, si compie il miracolo della nostalgia per tutto ciò che non è stato, per ciò che ormai è stato e per ciò che mai sarà, almeno in questo istante; in un parcheggio disabitato di questo pianeta scanzonato. Sputato per caso nell’unico occhio della galassia. Quisquilie, sciocchezze. Una pagliuzza.
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