Silvia
la conobbi a Pisa durante il primo giorno di lezione, in una calda aula di ingegneria. Polo F. Era convinta che mi chiamassi Auricchio, io di rimando storpiavo il suo cognome in Galbani, ché si sa, vuol dire fiducia.
Ridevamo spesso, ma Le ho dato anche filo da torcere.
Era il 2002. Lei aveva gli occhi grandi, gentili e di un verde che al sole facevano scintille.
Era bella. Era gentile. Ci volevamo bene.
Di un bene profondo. A lei devo molte delle poche cose buone che sono. Lei mi ha insegnato il perdono, che significa: imparare a vivere.
Mi ha insegnato il bene sopra ogni cosa.
Poi, tra una birra, una scamorza un film e un concerto siamo cresciuti.
Silvia mi ha insegnato anche il coraggio.
Mi ha insegnato che le malattie sono terribili ma sono solo cose della carne. Ché si può sorridere fino alla fine.
Silvia ha anche un ragazzo a cui voglio gran bene, Federico, ero sempre felice di uscire con loro due, anche perché mi piaceva la loro maniera di volersi bene… Mi pacificava sempre un poco il cuore.
Scrivo queste righe a 800 km di distanza per rispondere a quella domanda che ci poniamo quasi ogni giorno.
Cosa sopravvive alla morte?
Oppure forse scrivo solo per spartire un dolore che è di tutti. Non lo so. Non so dire adesso se è bene o un male. Sono spaesato.
So però, che soltanto Il bene, solo l’amore ci sopravvive.
So anche di essere stato fortunato
ad aver incrociato la mia strada con la tua e
conservo questa gioia tra le grandi cose della vita.
Adesso fa’ buon viaggio, Galbani, amica mia…
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