scrivi un venerdì di novembre
come se in fondo alle lettere
ci fosse una salvezza per l’umanitè
sapendo alla fine delle dita
non ti aspetta che un.
e che i tasti che una volta erano penne al massimo pennesieri
ora solo dei rumori e molle e polpastrelle senza calle.
nessun dolore. solo umanitezza.
quello che voglio dire è che se pure un giorno questa cosa dello scrivere avesse un qualche senso che non sia il fatto stesso del non averne, bene, mi dico: quale mai potrebbe essere?
avere delle cose da dire non vuol dire.
allora scrivi. dicci. ti danni come la nebbia che aspetta alla finestra il tempo necessario per tirarti qualche scherzo. poi esci. ti ammargi dentro i cazzi. ti racconti una storia con i fatti e poi ne scrivi quello che ti pare. è una cosa giusta. mi ripeto. è quello che mi piace. quella che dicono realitàs è solamente un fatto. ripenso.
le cose non sono snocciolate. c’è dell’altro oltre l’ovviamente. E là mi piace bivere. dove le ombre si chiamano aspilèzie o nèvrodi se è freddo o talla volta sinespèttie quando il mondo va di fretta. e le scarpe diventano proiettili e gli alberghi delle mastrici affamate di quattrodimensioni. Ecco che sorrido come un palco che affonda le lamette nella vitta e poi ne beve il sangue gorgolo esclamando: portatemi del pepe di Larenna! e invece arrivano stendardi e fremiti e bersagli consumati e odori di ragù con pezzi di guanciale e ore nuove, vergini come carta ancora da stampare. falliti resoconti mai riletti. e poi qualcosa chiama da un posto che non ho mai sentito ma che ho riconosciuto dal tonare della vosce. lo stesso tonarolo adotto quel mattino che dopo un caffè col sale. dal bordo del mutando. sfrattato un poco gli occhi ho estratto un varanzulo.
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